Gli ultimissimi sondaggi elettorali - sostanzialmente univoci nel loro
responso - consolidano e confermano un dato difficilmente contestabile.
La crisi di consenso dei partiti maggiori non solo continua, ma sembra
subire addirittura una accelerazione. Le cifre, nella loro crudezza,
parlano chiaro. Se si tornasse oggi alle urne, Pd e Pdl assieme
assommerebbero a poco più del 55 per cento dei consensi. Appena due anni
fa, alle elezioni politiche del 2008, erano riusciti a superare la
soglia del 70 per cento (70,6). È evidente che un calo di quasi 15 punti
percentuali in poco meno di 30 mesi, è difficilmente considerabile
fisiologico: se non altro perché, a differenza di quel che si potrebbe
normalmente supporre, della flessione dell’uno non si avvantaggia
affatto l’altro.
Il dato è lì, e pare meritevole di analisi magari un po’ più sganciate
dal contingente. Considerate le dimensioni della crisi, infatti,
spiegazioni che risolvono il tutto richiamando l’effetto-delusione sugli
elettori di pur evidenti conflitti personali (l’eterno duello
D’Alema-Veltroni da una parte o la più recente frattura tra Berlusconi e
Fini, dall’altra) cominciano a rivelarsi parziali e forse
insufficienti. Del resto, il fatto che i sondaggi segnalino la
contemporanea crescita di quasi tutti i partiti “minori” (dall’Idv alla
Lega fino all’ipotetico “terzo polo”) aggiunge al quadro un dato
impossibile da ignorare. E’ dunque già finita - e perché - la capacità
di attrazione, sul modello europeo, di un sistema fondato su due grandi
partiti che si confrontano e magari si alternano alla guida del Paese?
Mettiamo assieme alcuni fatti. I cosiddetti parlamentari teodem che
lasciano il Pd, preferendo la più piccola Udc; Francesco Rutelli che
abbandona il partito che ha co-fondato con Piero Fassino; Veltroni che
lancia un suo movimento, anche se per il momento all’interno del Pd;
Gianfranco Fini che abbandona la “casa madre” del Pdl; lo stesso Pdl che
si frantuma in Sicilia (la regione del famoso 60 a 0...) e attraversa
difficoltà evidenti tanto al Sud (eroso dagli uomini di Fini) quanto al
Nord (accerchiato dai leghisti di Bossi)... Ce n’è forse a sufficienza
per dire che i «partitoni»-calamita attraggono sempre meno, e che la
forza che sprigionano pare trasformarsi sempre più da centripeta in
centrifuga.
La questione, in fondo, sarebbe provare a capire se tra le due crisi
esiste un rapporto diretto - cioè se l’una influenza l’altra, e perché -
o se le difficoltà in cui si trovano Pdl e Pd hanno origini autonome e
diverse. Fu abbastanza evidente - e del resto fu ammesso dallo stesso
Berlusconi - il fatto che l’«invenzione» del Popolo della Libertà fu una
conseguenza praticamente diretta e una risposta alla nascita del
Partito democratico. Esiste lo stesso rapporto - oggi - tra la crisi
dell’uno e le difficoltà dell’altro?
E’ fuori di dubbio che il bipolarismo sia considerato dai
cittadini-elettori un dato ormai acquisito. Decine di sondaggi, però,
informano che è un bipolarismo che piace - e che funziona - soprattutto a
livello locale (e lo dimostra, a parte la stabilità delle giunte,
l’alta popolarità di cui godono sindaci, governatori e - talvolta -
perfino presidenti di Provincia). Assai più discussi, invece, sono gli
effetti a Roma (ed i risultati) del cosiddetto bipolarismo all’italiana:
un sistema che ha ormai trasformato il confronto politico in un perenne
muro contro muro, in uno scontro continuo nel quale perfino alle parti
«terze» (dal Quirinale agli organi di garanzia, fino alla Corte
Costituzionale) è spesso chiesto di schierarsi dalla parte del vincitore
in nome di una presunta ma proclamata «Costituzione materiale».
Difficile dire se Pd e Pdl stiano pagando appunto questo - e cioè un
bipolarismo trasformato in una sorta di insopportabile camicia di forza -
oppure se, cacciata dalla porta, stia rientrando dalla finestra la
storica predisposizione italiana al particolarismo e alla frammentazione
(sentimenti che avevano nel sistema proporzionale lo strumento per
realizzarsi). Che sia una la causa oppure l’altra (o ancora una terza o
una quarta...) sarebbe però opportuno cominciare a rifletterci. Molti,
infatti, affermano che la situazione è ormai a livello di guardia, e che
la Seconda Repubblica dovrebbe presto cedere il posto alla terza.
Nessuno, però, o quasi nessuno, indica soluzioni e vie da seguire. Si
litiga sul «porcellum» e sul sistema tedesco, ci si chiede se è meglio
tornare al Mattarellum o provare il doppio turno alla francese. Ci si
azzuffa e non si sceglie. Intanto la disaffezione verso la politica
cresce, e l’astensionismo tocca punte mai raggiunte prima...
Federico Geremicca, la stampa
lunedì 27 settembre 2010
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