L'ERA OBAMA
mercoledì 7 novembre 2012. Categoria: Visti da qui, Autore: Giorgio Tonini
Quattro anni fa, la parola d'ordine vincente di
Obama fu "Change", accompagnata dallo slogan "Yes, we can!" Quattro
anni dopo, Obama ha conquistato il secondo mandato presidenziale (e
un posto nella storia, non più solo come primo presidente nero)
grazie a un'altra parola: "Forward", avanti! E a un altro slogan:
"Four more years!", datemi, diamoci, altri quattro anni, il tempo
necessario per provare a trasformare un episodio di rottura, che ha
corso il rischio di ridursi all'ennesimo sogno spezzato della
storia americana, un po' Kennedy e molto Carter, in un vero ciclo
riformista, meno lontano dal modello Roosevelt.
Obama li ha avuti, questi altri quattro anni. E
sappiamo già per quali obiettivi li spenderà: sul piano
internazionale, per far avanzare la prospettiva di un governo
multilaterale del multipolarismo, coniugando il rispetto
dell'autodeterminazione dei popoli con la scelta preferenziale per
la democrazia e i diritti umani; e sul piano interno, per la
creazione delle premesse per uno sviluppo sostenibile, non più
drogato da una domanda a debito, ma fondato sulle solide basi di un
reddito creato dalla produzione, dal lavoro, dalla conoscenza.
Su entrambi i versanti, Obama deve indurre e
accompagnare gli Stati Uniti a "declinare crescendo", per prendere
a prestito un fortunato ossimoro di Bruno Manghi: declinare in
termini relativi, dal rango di iperpotenza solitaria e imperiale (o
meglio dalla illusione di possederlo) che ha caratterizzato la
stagione di George W. Bush, ma per crescere, fino ad esercitare il
ruolo di "presidente democratico" di una comunità internazionale
che ha ancora e forse più che mai bisogno di un "egemone
responsabile". E declinare da una crescita a debito, che si è in
effetti rovesciata in dipendenza, oltre che in squilibrio globale
insostenibile, in favore di una crescita solida, basata sulla
straordinaria capacità degli Stati Uniti di inventare, innovare,
creare non solo prodotti, ma idee, paesaggi umani, in definitiva
mondi immaginari e realizzabili al tempo stesso: dal grattacielo,
allo spazio, fino al computer e all'ipad.
Nei quattro anni del suo primo mandato, Obama ha
posto premesse significative di questa ambiziosa impresa. Ma sul
piano internazionale, alla nuova dottrina, che di per sé ha
cambiato lo scenario (basti pensare alla primavera araba), non
hanno ancora corrisposto successi tangibili nella gestione delle
tante crisi regionali, a cominciare dalla questione
israelo-palestinese. Su quello interno, il principale insuccesso di
Obama è stato il blocco del Congresso, figlio della deriva
hyperpartisan della politica americana, e in particolare della
egemonia della destra religiosa e ideologica sul Partito
repubblicano.
Su entrambi i fronti, Obama sa di non potersi
aspettare miracoli. Ma la sua autorevolezza esce indubbiamente
rafforzata dalla conferma elettorale: un dato che potrà rivelarsi
prezioso ad esempio nella gestione dell'intricato dossier
mediorientale, così come nel rapporto col Congresso. In
particolare, la sconfitta per quanto onorevole di Romney, insieme
alla vittoria dello spirito unitario e bipartisan di Obama,
potrebbe indurre ad una più matura riflessione nel Partito
repubblicano, circa la sterilità politica e perfino elettorale del
radicalismo di destra, schiudendo la possibilità di una nuova
stagione di cooperazione tra Casa Bianca e Campidoglio.
Per l'Europa, la rielezione di Obama presenta il
vantaggio di confermare un rapporto ormai rodato e nel complesso
positivo. E non solo per la popolarità di Obama nel Vecchio
Continente: non è vero infatti che Obama si disinteressi
dell'Europa, anche se è indubbio che il Pacifico ha da tempo
conquistato una posizione centrale nell'agenzia della Casa Bianca.
Obama sa che solo insieme all'Europa potrà affrontare i due
principali dossier che ingombrano il suo tavolo nello studio ovale:
la crisi economica e il rapporto col mondo arabo-islamico.
La vittoria di Obama parla anche a noi,
democratici italiani. Innanzi tutto perché mantiene vivo e anzi
rilancia poderosamente il pensiero democratico, quello che avevamo
voluto porre alla base del partito nuovo, della casa comune dei
riformisti italiani. Un pensiero che, proprio perché fa della
democrazia, con la sua umanistica consapevolezza del limite
radicale della politica, il suo ideale regolativo, rifugge
dall'ideologia e dallo spirito conservatore che essa porta con sé
(insieme e non casualmente con una buona dose di cinismo), in
favore di un impasto originale di radicalità dei valori, dei
principi, dei comportamenti, degli stili di vita, e di pragmatismo
creativo e curioso, nella ricerca di soluzioni innovative ai
problemi collettivi.
Un pensiero che considera semplicemente insensata
la distinzione e ancor più la divisione del lavoro, tra sinistra e
centro, tra progressisti e moderati. Obama è irriducibile ad una
sola di queste due dimensioni: come ogni vero riformista
democratico, Obama è al tempo stesso un progressista, un uomo di
sinistra, per i fini che persegue, a cominciare dalla promozione
della pace tra i popoli e dell'uguaglianza sociale e civile. Ed è
un moderato, un centrista, per la capacità di dialogo, lo spirito
bipartisan, la disposizione alla gradualità nel cambiamento di cui
pure avverte l'urgenza. Una volta la chiamavamo "vocazione
maggioritaria". E vorrà pur dire qualcosa (e dovrebbe essere per
noi democratici motivo di riflessione approfondita) che gli
italiani che hanno stabilito un feeling più forte e diretto con
Obama si chiamano Giorgio Napolitano, Mario Monti e Sergio
Marchionne.
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