venerdì 22 ottobre 2010

Scuola , Università, Regione, Enti Locali, Associazioni sindacali e idustriali


Scuola, Università, Regione, Enti locali, Associazioni sindacali e industriali: insieme per il lavoro a partire dalla formazione. Non proteste, ma proposte. L’API lo sta iniziando a fare!

Umberto Lucia

Introduzione

Le nuove teorie sullo sviluppo focalizzano la loro attenzione sul ruolo l'innovazione tecnologica a supporto della crescita economica.
Sin dalla metà degli anni '80 le teorie sullo sviluppo sono state soggette ad un nuovo interesse soprattutto per la complessità cui è soggetta l'analisi delle correlazioni alla base della crescita economica.che riveste
Alcune di esse si fondano sul principio dell'accumulo di capitale. In questo modello la funzione produzione incorpora due fattori convenzionali, il lavoro ed il capitale. La crescita si realizza risparmiando sui costi attuali in funzione di quelli futuri. Per conseguire la crescita le economie incrementano i loro investimenti netti ed i loro capitali. Assumendo che il livello numerico della popolazione resti invariato insieme al potenziale lavoro applicato, allora aumentando il capitale per unità di forza lavoro si ottiene un incremento di crescita economica: maggiore è l'investimento in produzione, maggiore è la produttività e la crescita economica raggiunta. Questo modello, però, presenta un forte limite: come risultato del processo di accumulo di capitale e della diminuzione del ricavo, ad un certo istante le economie raggiungono il loro stato stazionario, l'equilibrio di crescita. Allo stato stazionario la crescita viene interamente determinata dall'innovazione tecnologica. Tale modello, però, non riesce a fornire una spiegazione al processo che genera l'innovazione tecnologica, assumendolo come elemento esterno al sistema economico e per sua natura esogeno. Inoltre questo modello non riesce a fornire alcuna spiegazione alla crisi economica che si è originata in Unione Sovietica.
Altre teorie tendono a fornire modelli in grado di descrivere un maggior numero di situazioni economiche empiriche. Esse si basano sulla nozione di "economie fondate sulla conoscenza" (knowledge-based economies) ed evidenziano l'importanza dei processi di acquisizione operativa della professionalità, della ricerca, della formazione e della imprenditorialità del "capitale uomo". In esse si accetta il principio di diminuire i proventi del fattore di accumulazione, riflettendo il ruolo fondamentale del mercato. Queste teorie privilegiano l'investimento in ricerca come funzione di produzione. La tecnologia, però, non rappresenta un bene privo di limitazioni; infatti queste teorie, per ottenere risultati economicamente rilevanti, devono introdurre la necessità di sistemi razionali di innovazione. Questi sistemi, però, chiusi rispetto alla comunicazione di informazioni, limitano la crescita tecnologica stessa, frenando i processi innovativi e, quindi, anche la stessa crescita economica. Inoltre questi modelli non riescono a fornire spiegazioni alla situazione economica di alcuni stati dell'Africa.
In questo lavoro si cercherà di sviluppare un modello fenomenologico di analisi dello sviluppo che non presenti i limiti delle teorie precedenti e che sia conforme alle linee guida dello sviluppo sostenibile. Si vuole giungere ad un modello che connetta i vari fattori che influenzano lo sviluppo, in modo da ottenere una metodologia di analisi e, quindi, anche di intervento nelle operazioni di trasferimento tecnologico.
Ricerca e Sviluppo (sostenibile) è un settore di indagine non classificabile come ricerca di base, ma neppure come ricerca applicata. Una gran parte della crescita economica è dovuta all'incremento della produttività totale, all'accumulo delle conoscenze ed all'innovazione che permettono di combinare tra loro gli stessi input di base in forme più efficienti. Occorre sviluppare ricerche applicative multidisciplinari, soprattutto su linee orizzontali ed interdisciplinari.
Il concetto di sostenibilità è strettamente connesso agli sviluppi della politica e della comunità. Infatti la politica garantisce le attività di gestione e di regolamentazione strutturale, mentre lo sviluppo della comunità garantisce la qualità della vita per le attuali generazioni senza privare le generazioni future e le persone, ovunque, del loro diritto ad un pianeta vivibile ed ecologico.
Lo sviluppo sostenibile come concetto e paradigma è il sintomo culturale di una cambiamento storico che si realizza in tutte le società come elemento caratterizzante dell'ultimo decennio del XX secolo. Questo concetto implicitamente concretizza differenti aspirazioni filosofico-sociali quali democrazia, comunità, pace, diversità, diritti umani, uguaglianza del genere umano, giustizia economica e sociale, ecologia: si contrappone alla prevalente ortodossia della attuale crescita economica, della crescente riproposta di un'ottica antropocentrica e dei valori materialisti, richiedendo un nuovo contratto sociale e proponendo un nuovo atteggiamento culturale.

Il significato dello sviluppo sostenibile

Il concetto di sostenibilità non si riferisce solo alle problematiche ecologiche, ma anche e soprattutto a più ampi e necessari cambiamenti sociali, politici e culturali che richiederanno lo sviluppo di nuovi metodi, attitudini individuali e abilità professionali.
Evidenze dell'interferenza umana con il mondo naturale sono visibili in ogni ecosistema. Esempi significativi sono rappresentati dalla presenza dei CFC (clorofluorocarburi) nella stratosfera oppure dal cambiamento del corso dei principali fiumi del pianeta.
Sin da quando, circa diecimila anni fa, l'Uomo abbandonò la vita nomade, ha sempre manipolato il mondo naturale per soddisfare le sue necessità. E' difficile stimare i tempi, la natura e l'entità del cambiamento globale indotto dall'Uomo, soprattutto nel periodo post-industriale. I motivi sono i seguenti:

1 - la meccanizzazione sia industriale sia agricola nell'ultimo secolo ha determinato un incremento della produttività e della produttività del lavoro con conseguente incremento del benessere e dei servizi;

2 - l'entità numerica della popolazione non ha paragoni storici. Inoltre la disuguaglianza globale è significativa; infatti il benessere è distribuito solo a circa un quarto della popolazione mondiale come si evince da uno studio dell'Indira Gandhi Institute of Development Research riassunto nella seguente Tabella:

3 - la natura stessa dei cambiamenti non ha precedenti: l'inventività umana in ambito industriale ha introdotto prodotti e materiali inquinanti nell'ambiente; infatti alcuni materiali non sono naturalmente presenti e la loro introduzione è avvenuta con tempi non naturali.

Al fine di poter estrapolare scenari evolutivi e previsionali delle attività produttive ed ecologiche è fondamentale una analisi mirata alla comprensione della attuale situazione evolutiva.
Il concetto di sostenibilità è connesso a quello di stato stazionario del sistema economico introdotto nel XIX secolo dagli economisti della politica; infatti per John Stuart Mill al termine di stazionario non si deve associare il significato di staticità, ma esso è riferito all'equilibrio tra risorse di produzione e risorse naturali con riferimento alla equità di accesso alle risorse naturali per le generazioni successive.

Chiarezza sul concetto di sostenibilità

Il concetto di sviluppo sostenibile non è un concetto autoreferente, ma è contestualizzato in ambito socio-politico: questo implica la necessità di chiarezza nella definizione di sostenibilità. Tutti gli autori concordano su tre concetti correlati a quello di sviluppo sostenibile:

1. la necessità di arrestare la degradazione ambientale e lo squilibrio ecologico
2. la necessità di non impoverire le generazioni future
3. la necessità di una buona qualità della vita e dell'equità tra le generazioni attuali .

La chiarezza riguardo una accurata definizione di sviluppo sostenibile è cruciale per comprendere:

1. quali problematiche enfatizzare
2. quali necessità ed interessi debbano avere la priorità
3. chi deve essere coinvolto nell'assumere le decisioni .

Dalla chiarezza su questi punti si può derivare:

1. quale struttura debba essere costruita per perseguire le finalità
2. quale politica debba essere adottata per sostenere le azioni
3. quali strumenti debbano essere impiegati per conseguire gli obiettivi .

Il trattato di Maastricht

Il documento che più di tutti ha indotto una forte spinta nel dibattito sulla sostenibilità è stato il Trattato sull'Unione Europea (Maastricht, 1992) che definisce le azioni dell'Unione Europea verso una dimensione ambientalistica della sostenibilità. Fondamentali, anche se non decisive, appaiono le politiche di cooperazione per lo sviluppo e quelle economiche dell'Unione Europea, i mercati interni ed i fondi strutturali. Nel trattato si evidenziano la coesione sociale e la protezione dell'ambiente come le condizioni principali per la crescita economica sostenibile: questo è un obiettivo politico che permette di realizzare il Singolo Mercato Europeo per gli Stati Membri e non, quindi, lo sviluppo economico sostenibile.
Il Quinto Programma Quadro di Azione Ambientale introduce un approccio integrato e strategico allo sviluppo sostenibile a livello di Unione Europea in cinque settori chiave:

1. industria
2. trasporti
3. agricoltura
4. energia
5. turismo .

In questo contesto si sono individuate quattro aree di priorità:

1. gestione sostenibile delle risorse naturali
2. aspetti socioeconomici di sostenibilità
3. accessibilità sostenibile
4. pianificazione sostenibile .

L'approccio concettuale e gestionale si deve basare su una analisi globale del sistema economico, produttivo e sociale, intendendo tale realtà come Sistema Complesso, interconnesso e dinamico. Un esempio in questo senso è fornito dal trasporto pubblico: si continua a tentare di ridurre i tempi minimi di percorrenza degli spostamenti necessari per raggiungere il luogo di lavoro, mentre l'atteggiamento più corretto nel senso della sostenibilità sarebbe quello di costruire un sistema che riduca le necessità di spostamento per svolgere il proprio lavoro.

Le decisioni di Kyoto

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici applicata nella Conferenza Mondiale sull'Ambiente di Rio è stata ratificata dall'Italia il 15 gennaio 1994. Essa contiene una serie di obblighi per finalità generali, così riassumibili:

1. a breve termine: azioni finalizzate alla limitazione dei possibili mutamenti climatici globali indotti da attività umane, a mezzo di interventi sulle cause principali di tali cambiamenti

2. a medio termine: azioni finalizzate alla mitigazione degli effetti climatici globali a mezzo di interventi di prevenzione dei danni e di minimizzazione delle conseguenze negative, prevedibili e conseguenti, ai mutamenti climatici, sull'ambiente naturale, su quello antropizzato e sullo sviluppo socioeconomico

3. a lungo termine: azioni finalizzate a consentire e favorire l'adattamento dell'umanità ai mutamenti climatici e ad un nuovo ambiente naturale globale differente da quello attuale .

Gli obblighi possono essere così sintetizzati:

1. di natura politica e socioeconomica nazionale nei settori più rilevanti delle attività umane (energie, processi industriali, produzione agroalimentare, gestione dei rifiuti)

2. di natura politica e socioeconomica internazionale per la cooperazione internazionale tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo o con economia in transizione

3. di natura tecnico-scientifica per la partecipazione a programmi di natura tecnico-scientifica internazionale per lo studio dell'ambiente globale e dei suoi mutamenti climatici, per l'osservazione della Terra e del clima, per lo sviluppo dell'innovazione tecnologica nei settori produttivi, industriali ed energetici

4. di natura culturale e sociale per la diffusione dell'informazione sui problemi ambientali e climatici .

Nella Convenzioni impegni ed obblighi non sono espressi in azioni concrete da effettuare, modalità operative di attuazione e tempi da rispettare, ma sono espressi in termini generali. Nella Convenzione viene istituito un organo definito La conferenza delle Parti, al quale viene demandato il compito fondamentale di dare attuazione dei principi e degli impegni generali contenuti nella Convenzione stessa.
Il Protocollo di Kyoto, approvato nel 1997, è un atto esecutivo che esprime gli impegni urgenti e prioritari inerenti a settori di economie nazionali. Il Protocollo di Kyoto è indirizzato esclusivamente ai Paesi sviluppati ed a quelli ad economia in transizione, mentre non pone restrizioni a quelli in via di sviluppo. Il Protocollo individua e definisce operativamente solo una parte molto limitata degli impegni da attuare. Esso rappresenta un punto di partenza fondamentale, non solo nella direzione delle problematiche connesse ai cambiamenti climatici, ma anche e soprattutto nel quadro più generale dello sviluppo sostenibile. Il Protocollo ha posto e sancito la centralità sia dei problemi del clima globale nello sviluppo socioeconomico mondiale sia di quelli connessi allo sviluppo sostenibile per il futuro del nostro pianeta e per la sopravvivenza stessa dell'umanità. Tale Protocollo deve essere inteso come il punto di partenza per poter iniziare ad affrontare i problemi del clima e dello sviluppo sostenibile, ma anche per la cooperazione mondiale. Il Protocollo impegna i Paesi industrializzati e quelli ad economia in transizione a ridurre complessivamente del 5% le principali emissioni antropogeniche dei gas che possono alterare l'effetto serra naturale del nostro pianeta nel periodo compreso tra il 2008 e 2012. I gas individuati sono: anidride carbonica, metano, protossido di azoto, fluorocarburi idrati, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo. La riduzione richiesta è riferita al 1990 per i primi tre gas (anidride carbonica, metano, protossido di azoto) ed al 1995 per gli altri (fluorocarburi idrati, perfluorocarburi e esafluoruro di zolfo).
Nessun tipo di limitazioni per le emissioni di gas ad effetto serra viene imposto ai paesi in via di sviluppo perché tale vincolo rallenterebbe o condizionerebbe il loro sviluppo socioeconomico; infatti ogni limitazione alle emissioni di gas serra avrebbe ripercussioni sulla produzione e sul consumo energetico, sull'agricoltura, sull'industria e su ogni altro settore produttivo con conseguente aumento di oneri finanziari e costi aggiuntivi: questo avrebbe una ricaduta negativa sul loro processo di sviluppo.
Il Protocollo di Kyoto individua i seguenti settori come prioritari:

1. energia, sia nei processi connessi con la combustione di combustibili fossili per la produzione energetica sia come emissioni non controllate di fonti energetiche di origine fossile
2. processi industriali
3. agricoltura
4. rifiuti (loro gestione e smaltimento) .

Si è introdotta la necessità di forestazione intesa sia come riforestazione sia come afforestazione.
Pertanto la riduzione di emissioni deve essere intesa come riduzioni delle emissioni nette, cioè come bilancio netto tra quanto complessivamente aggiunto all'atmosfera e quanto complessivamente da essa sottratto.

Inoltre il Protocollo individua anche azioni operative a sostegno dello sviluppo sostenibile, ovvero:

1. azioni di carattere generale per incrementare l'efficienza energetica nei settori più rilevanti dell'economia nazionale e per incrementare le capacità di assorbimento dei gas serra rilasciati in atmosfera

2. azioni di carattere politico-economico al fine di eliminare quei fattori di distorsione dei mercati che favoriscono le emissioni di gas serra

3. azioni nel campo dell'agricoltura e delle fonti rinnovabili di energia

4. azioni di politica dei trasporti, di gestione dei rifiuti e di gestione e manutenzione nel trasferimento di metano al fine di limitare e contenere le emissioni di metano e gas serra .

E' stato proposto un nuovo metodo attuativo per conseguire lo sviluppo sostenibile, il clean development mechanism finalizzato alla cooperazione transnazionale al fine di promuovere il trasferimento di tecnologie e di know how tra Paesi Ricchi e Paesi Poveri.

Dalla scuola al lavoro: una risposta per la competitività

In Europa, quasi il quaranta per cento della forza lavoro è costituito dai lavoratori della conoscenza che rappresentano il punto di forza dello sviluppo come emerge dai risultati dei monitoraggi e degli studi condotti dalla Work Foundation[1] e da Eurofound[2].
Il lavoratore della conoscenza è una figura professionale che opera in un ambito che gli richiede competenza, capacità cognitive, prontezza nel valutare le scelte e disposizione alla flessibilità organizzativa. E’ la figura chiave per le imprese europee, ma nell’Europa del Sud è una figura non ancora molto diffusa. Questo emergeva già nel 2007 nella relazione Exploiting Europe’s Knowledge Potential: ‘Good Work’ or ‘Could do Better’, Knowledge Work and Knowledge Workers in Europe curata da Katerina Rüdiger e Alana McVerry della Work Foundation per il Knowledge Economy Programme. Infatti, questa figura opera in vari ambiti: dai servizi finanziari alla comunicazione, dall’alta tecnologia alla formazione, dall’intrattenimento alla cultura. In Svezia i lavoratori della conoscenza sono circa il 60% del totale della forza lavoro, nel Regno Unito e in Danimarca raggiungono il 50 %, in Germania il 44% e in Francia il 43%, mentre in Italia rappresentano solo il 37%. E proprio nell’Europa del Sud, quella in cui abitiamo noi, che il “concreto” lavoratore della conoscenza, quello in carne e ossa, risulta essere solo un sembiante sbiadito di quello che si pensa che sia. Lo studio della Work Foundation ha caratterizzato le tipologie di lavoro costruendo un indicatore, il good job index, che sintetizza diciannove caratteristiche: nell’indice vengono valutate la ripetitività e la monotonia dei compiti svolti, il dover risolvere problemi imprevisti, la possibilità di potere fare al meglio quello che si fa, l’abilità di applicare le proprie idee al lavoro, la percezione di svolgere un lavoro utile, la formazione offerta dall’impresa, le opportunità di carriera e quelle di crescita culturale e umana. Proprio dove i lavoratori della conoscenza sono carenti, il good job index è il peggiore; infatti, in Italia, Spagna. Portogallo e Grecia il suo valore è 12,76, mentre in Scandinavia e in Olanda 14,53 e nel Regno Unito e in Irlanda 13,85. La sua scala presenta come valore massimo 19. Emerge che se si vuole che l’Europa accresca la propria competitività è necessaria più attenzione e più interventi per questa risorsa strategica. Troppi paesi, dicono gli autori, non stanno impiegando al meglio questi lavoratori. Solo facendolo, solo riconoscendo loro il ruolo strategico in innovazione, crescita, uso di nuove tecnologie, l’Europa potrà svolgere davvero un ruolo nell’economia della conoscenza mondiale. Appare evidente che sia importante operare una svolta nella formazione di questa tipologia di lavoratori, costruendo un sistema stabile di formazione di queste figure professionali. Per farlo si possono attuale i percorsi previsti per gli Istituti Tecnici Superiori (ITS).


L’Istruzione Tecnica Superiore: un breve percorso storico nella normativa

L’art. 69 della L. 144/1999 aveva previsto l’istituzione, nell’ambito del sistema di Formazione Integrata Superiore (FIS), del cosiddetto sistema della Istruzione e Formazione Tecnica Superiore IFTS), al quale si accede dopo il conseguimento del titolo rilasciato dalla scuola secondaria di II grado. Proprio la L. 144/1999 aveva affidato ai Ministri dei Ministeri allora denominati della Pubblica Istruzione, del Lavoro e della Previdenza Sociale e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, sentita la Conferenza Unificata di cui al D.Lgs. 281/1997, il compito di adottare un decreto condiviso con il quale si fissassero i criteri di accesso ai corsi, gli standard dei diversi percorsi dell’IFTS, le modalità che favoriscono integrazione tra i sistemi formativi e determinano i criteri per l’equipollenza dei rispettivi percorsi e titoli, i crediti formativi che si possono acquisire, le modalità della loro certificazione e utilizzazione, secondo quanto previsto dal D.Lgs. 112/1998 all’art. 142, c. 1, lettera c). Con l’emanazione del D.I. 436/2000 i Ministri incaricati hanno adottato il regolamento attuativo dell’art. 69 della L. 144/1999.
Successivamente la L. 296/2006 all’art. 1, c. 631, ha previsto la riorganizzazione del Sistema IFTS, all’interno del quadro di potenziamento dell’alta formazione professionale e delle misure per la valorizzazione iella filiera tecnico-scientifica, e contestualmente ha istituito al c. 875 il Fondo per l’Istruzione e la Formazione Tecnica Superiore.
Questa riorganizzazione veniva delegata all’emanazione di un previsto Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Pubblica Istruzione, in concerto con il Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale e con il Ministro, dopo aver definito una intesa in sede di Conferenza Unificata.
L’art. 13, c. 2 del D.L. 7/2007, convertito con modificazione dalla L. 40/2007, nel contesto delle Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di nuove attività economiche e la nascita di imprese, ha introdotto, tra le strutture che operano nella Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, i costituendi Istituti Tecnici Superiori.

L’Istruzione Tecnica Superiore: aspetti normativi

Sulla base del precedente quadro normativo è stato emanato il D.P.C.M. 25 gennaio 2008, recante le linee guida per la riorganizzazione del Sistema di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore e per la costituzione degli Istituti Tecnici Superiori. Si delineano tre fondamentali tipologie di intervento:
  1. la costituzione degli Istituti Tecnici Superiori (ITS), che realizzano percorsi di durata biennale (per un totale di 1800/2000 ore), per far conseguire a giovani e adulti un diploma di specializzazione tecnica superiore riferito alle aree tecnologiche, considerate prioritarie dagli indirizzi nazionali di programmazione economica, con riferimento al quadro strategico dell’Unione Europea. Gli ITS sono organizzati seguendo il modello della Fondazione di Partecipazione ed i loro enti di riferimento sono gli Istituti Tecnici e Professionali;
  2. i percorsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS), di durata annuale, per il conseguimento del certificato di Specializzazione Tecnica Superiore, con l’obbligo di corrispondere a fabbisogni formativi di tecnici superiori in settori di diverse aree tecnologiche, non sovrapponentesi con gli ITS;
  3. lo sviluppo dei Poli Tecnico-Professionali, da realizzare in via sperimentale per rendere stabile e organizzata la collaborazione degli Istituti Tecnici e Professionali con le strutture formative accreditate e con il mondo del lavoro e delle professione.
In particolare, il DPCM e l’annesso Allegato B prevedono che:
  1. per integrare stabilmente risorse pubbliche e private, gli ITS sono configurati secondo il modello della Fondazione di Partecipazione, nell’ambito dei piani territoriali di intervento deliberati dalla Regioni nell’esercizio della loro esclusiva competenza in materia di programmazione dell’offerta formativa;
  2. le istituzioni scolastiche tecniche o professionali sono le istituzioni di ferimento della Fondazione di Partecipazione;
  3. la Fondazione acquista la personalità giuridica a norma dell’art. 1 del D.P.R. 361/2000;
  4. il Prefetto della provincia in cui ha sede legale l’ITS esercita il controllo sull’amministrazione della fondazione, con i poteri previsti dal Capo II, Titolo II, Libro I del Codice Civile e, in particolare, dall’art. 23, ultimo comma, e dagli artt. 25, 26, 27 e 28;
  5. il patrimonio della Fondazione è composto dal fondo di dotazione costituito e conferimenti in proprietà, uso o possesso a qualsiasi titolo, di denaro o beni mobili e immobili, o altre utilità impiegabili per il perseguimento degli scopi, effettuate all’atto della costituzione ovvero successivamente dai Fondatori e dai Partecipanti, dai beni mobili e immobili che pervengano o perverranno a qualsiasi titolo alla Fondazione, dalle elargizioni fatte da enti o da privati con espressa destinazione di incremento del patrimonio, da contributi attribuiti al patrimonio dall’Unione Europa, dallo Stato, da Enti territoriali o da altri Enti pubblici;
  6. i membri della Fondazione si dividono in Fondatori e Partecipanti: possono divenire Fondatori, a seguito di delibera adottata a maggioranza assoluta dal Consiglio di Indirizzo, le persone fisiche e giuridiche, pubbliche o private, gli enti o le agenzie che contribuiscano al Fondo di dotazione o al Fondo di gestione nel forme e nella misura determinata nel minimo dal Consiglio medesimo, mentre possono ottenere la qualifica di Partecipanti, a seguito di delibera del Consiglio di Indirizzo, le persone fisiche e giuridiche, pubbliche e private, gli enti e le associazioni che contribuiscono agli scopi della Fondazione con conferimenti in denaro in misura non inferiore a quella stabilita annualmente dal Consiglio di Indirizzo, l’attribuzione di beni, materiali e immateriali, e servizi, con attività professionali di particolare rilievo. Inoltre, il Consiglio di indirizzo può determinare, con regolamento, la suddivisione e il raggruppamento dei Partecipanti per categorie di attività e partecipazione alla Fondazione, in relazione alla continuità, qualità e quantità dell’apporto;
  7. il Consiglio di indirizzo è l’organo al quale è riservata la deliberazione degli atti essenziali alla vita della Fondazione ed al raggiungimento dei suoi scopi;
  8. l’Assemblea di partecipazione, costituita dai Fondatori e dai Partecipanti, formula consultivi e proposte sulle attività, programmi e obiettivi della Fondazione, i sui bilanci preventivo e consuntivo ed elegge nel suo seno i membri del Consiglio di Indirizzo, rappresentanti dei Partecipanti e un membro della Giunta Esecutiva;
  9. tutte le controversie relative allo Statuto, comprese quelle inerenti la sua interpretazione, esecuzione e validità, sono deferite ad un collegio arbitrale di tre arbitri.
Le fonti normative cui attinge la regolazione della Fondazione di Partecipazione sono l’art. 12 c.c., ora abrogato, l’art. 1332 c.c., l’art. 1 del D.P.R. n. 361/2000 , l’art. 45 Cost..

Il D.P.C.M. 25 gennaio 2008

Il Capo I, Art. 1, c. 2 definisce gli obiettivi:
“Allo scopo di contribuire alla diffusione della cultura tecnica e scientifica e sostenere, in modo sistematico, le misure per lo sviluppo economico e la competitività del sistema produttivo italiano in linea con i parametri europei, la riorganizzazione di cui al comma 1 si realizza progressivamente, a partire dal triennio 2007/2009, in relazione ai seguenti obiettivi:
a.      rendere più stabile e articolata l’offerta dei percorsi finalizzati a far conseguire una specializzazione tecnica superiore a giovani e adulti, in modo da corrispondere organicamente alla richiesta di tecnici superiori, di diverso livello, con più specifiche conoscenze culturali coniugate con una formazione tecnica e professionale approfondita e mirata, proveniente dal mondo del lavoro pubblico e privato, con particolare riferimento alle piccole e medie imprese, e ai settori interessati da innovazioni tecnologiche e dalla internazionalizzazione dei mercati;
b.      rafforzare l’istruzione tecnica e professionale nell’ambito della filiera tecnica e scientifica attraverso la costituzione degli istituti tecnici superiori di cui alla legge 2 aprile 2007, n. 40, articolo 13, comma 2;
c.       rafforzare la collaborazione con il territorio, il mondo del lavoro, le sedi della ricerca scientifica e tecnologica, il sistema della formazione professionale nell’ambito dei poli tecnico-professionali di cui all’articolo 13, comma 2, della legge n. 40/07;
d.      promuovere l’orientamento permanente dei giovani verso le professioni tecniche e le iniziative di informazione delle loro famiglie;
e.      sostenere l’aggiornamento e la formazione in servizio dei docenti di discipline scientifiche, tecnologiche e tecnico-professionali della scuola e della formazione professionale;
f.        sostenere le politiche attive del lavoro, soprattutto in relazione alla transizione dei giovani nel mondo del lavoro e promuovere organici raccordi con la formazione continua dei lavoratori nel quadro dell’apprendimento permanente per tutto il corso della vita.”

Il successivo art. 2 fissa le restrizioni previste per le tipologie di intervento previste:
a.      l’offerta formativa e i programmi di attività realizzati dagli istituti tecnici superiori di cui al capo II;
b.      l’offerta formativa riguardante i percorsi di cui al capo III;
c.       le misure per facilitare lo sviluppo dei poli tecnico-professionali in relazione agli obiettivi di cui all’articolo 1, comma 2, lettera c).

Per quanto concerne gli Istituti Tecnici Superiore, la loro organizzazione è delineata al Capo II dove l’art. 6 esplicita gli standard organizzativi, ovvero, al
-       c. 2, che possono essere costituiti se previsti dai Piani Territoriali  di cui all’art. 11 dello stesso D.P.C.M.,
-       c. 3 che, ai fini di determinare gli elementi essenziali per la riconoscibilità degli ITS su tutto il territorio nazionale e con l’obiettivo di consolidare ed ampliare l’associazione tra i soggetti pubblici e privati di cui alla L. 144/99, art. 69, c. 2, nonché l’integrazione tra risorse pubbliche e private, la denominazione di “Istituto Tecnico Superiore”, con l’indicazione del settore di riferimento, è attribuita esclusivamente alle strutture rispondenti alle linee guida contenute nell’allegato a) che sono configurate secondo lo standard organizzativo della fondazione di partecipazione con riferimento agli articoli 14 e seguenti del Codice Civile e sulla base dello schema di statuto contenuto nell’allegato b);
-       c. 6 che gli ITS realizzano, nel rispetto delle priorità indicate dalle regioni, nell’ambito della programmazione regionale di loro competenza, i percorsi rispondenti agli standard di cui all’articolo 7 e le tipologie di attività indicate nell’allegato a).

Le aree tecnologiche sono elencate all’art. 7, ovvero:
1. efficienza energetica;
2. mobilità sostenibile;
3. nuove tecnologie della vita;
4. nuove tecnologie per il made in Italy;
5. tecnologie innovative per i beni e le attività culturali;
6. tecnologie della informazione e della comunicazione.

La certificazione del diploma di istruzione tecnica superiore viene rilasciata da parte dell’Istituto Tecnico o Professionale dopo il superamento delle verifiche finale delle competenze acquisite condotte da specifiche commissioni d’esame costituire in modo da assicurare la presenza di rappresentanti della Scuola, dell’Università, della formazione professionale ed esperti del mondo del lavoro ai sensi del c. 3 dell’art.4, dello stesso D.P.C.M..

Infine, nell’All. 3 sono riassunti i costi previsti: il contributo annuale del Ministero della Pubblica Istruzione (oggi M.I.U.R.) per il finanziamento del piano regionale è commisurato sulla base dei seguenti parametri di riferimento:
  1. costo allievo/ora: 6/8 euro
  2. numero minimo di allievi per corso: 20
  3. durata del percorso
La tipologia di intervento dei piani di attività degli istituti tecnici superiori, comprensivi dei percorsi e delle attività di cui al Capo II:
  1. percorsi per il conseguimento del diploma di tecnico superiore - numero di ore formative previste: 1800/2000; limite di costo previsto, di regola, per percorsi formativi della durata di 4 semestri: 300.000 euro;
  2. attività comprese nei programmi triennali degli istituti tecnici superiori (diverse dalla progettazione e dalla realizzazione dei percorsi formativi) previste nell’allegato a): il 30% della somma stanziata per i percorsi formativi.
  3. contributo alle spese di funzionamento e dotazioni strumentali necessarie alla realizzazione dei percorsi e delle attività di cui sopra: non oltre il 30% della somma stanziata per i percorsi formativi.

Conclusioni

Preso atto della difficoltà del momento storico in cui viviamo, la formazione tecnica superiore appare uno strumento per supportare il mondo del lavoro e generare posti di lavoro. L’Italia continua ad essere, secondo la Carta Costituzionale, una Repubblica fondata sul lavoro. Quindi attiviamoci tutti, sistemi politici, industriali, scolastico-educativi, sindacali per applicare gli strumenti che sono già pronti: occorre solo sedersi a un tavolo e non litigare, ma pensare che l’unica risorsa della nostra Repubblica è il lavoro. Noi dell’API abbiamo già un progetto pronto rispetto agli ITS! Supportateci per applicarlo.



[1] La Work Foundation è una autorità indipendente dell’UE che si occupa di lavoro e del suo futuro. Il suo obiettivo è di migliorare la qualità della vita lavorativa e l’efficacia delle organizzazioni offrendo ai leader, ai  manager e agli uomini politici nuovi approcci e nuove idee per mezzo di verifiche, analisi statistiche, consigli organizzativi, e soprattutto un nuovo modo di pensare in rete e sinergia.
[2] Eurofound, the European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, è un organismo dell'Unione Europea, uno dei primi ad essere stato istituito per lavorare in settori specializzati della politica dell’UE. In particolare, è stato istituito dal Consiglio Europeo (regolamento CEE n. 1365/75 del 26 maggio 1975), per contribuire alla pianificazione e progettazione di migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa.

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