giovedì 14 luglio 2011

IL DIRITTO DII VIVERE O DI MORIRE A CHI APPARTIENE ?

Caro Andrea, cari amici,
Ho cercato di leggere attentamente sia questa tua mail che l'intervento di Marco Calgaro alla Camera. Debbo dire che ho fatto parecchia difficoltà a districarmi tra le innumerevoli citazioni filosofiche riportate. Non riuscirò mai a comprendere perchè i politici continuino ad utilizzare espressioni comunicative così contorte da risultare difficilmente comprensibili ai più ma forse la ragione è proprio il segreto desiderio che risultino effettivamente incomprensibili alle menti più semplici come la mia.
Confesso di non avere esaminato i contenuti della Legge e di non avere alcuna intenzione di farlo perchè mi è subito parso evidente che si sarebbe trattato del solito pastrocchio all'italiana.
Al riguardo, la mia posizione è decisamente chiara. La questione è regolata da 3 punti ben precisi:
 
1) Il diritto di ciascun individuo di poter decidere autonomamente ed in piena libertà se continuare a vivere o farla finita.
2) Il dovere Costituzionale dello Stato di assicurare comunque e indipendentemente dal decorso della malattia tutte le cure possibili per la sopravvivenza (anche solo chimica) dell'individuo.
3) il diritto del medico curante di operare in base alla propria coscenza
 
In questo scenario dominato da Diritti e Doveri bisogna stabilire quali debbano prevalere.
 
Io penso che se il paziente è coscente, capace di intendere e di volere e decide autonomamente di rinunciare alle terapie, nessuna Legge al mondo (e nessun medico) dovrebbe poter contrastare questa volontà.
 
Se il paziente è in stato vegetativo e non è in grado di esprimersi nessuno al mondo (Stato, parenti o medici) può arrogarsi in diritto di decidere per lui sul termine della propria vita
 
Se il paziente in stato vegetativo ha precedentemente e lucidamente espresso una formale rinuncia alla terapia di sopravvivenza postuma bisogna rispettare la sua volontà e lasciarlo morire a meno che non ci siano afondate speranze di un miglioramento della sua condizione. Questo è effettivamente il punto più controverso perchè una formale volontà di rinuncia terapeutica fatta in stato di salute mentale e magari anche fisica non è detto che permanga sempre a posteriori e lo stato vegetativo impedisce di confermarla ma, a mio avviso, tale espressione di volontà deve essere trattata alla stessa stregua di una volontà testamentaria.
 
Laddove la decisione di porre fine alla propria esistenza deriva da una precisa volontà dell'assistito deve essere consentito che la legislazione sanitaria consenta un decesso rapido ed indolore pur nel rispetto della coscenza dei singoli medici ed operatori sanitari.  
 
Questa è, da sempre, la mia opinione in materia.
 
Saluti
 
Marco Corrini
----- Original Message -----
Sent: Wednesday, July 13, 2011 3:41 PM
Subject: Legge sul fine vita

 Con riguardo al provvedimento approvato dalla Camera dei Deputati in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento ritengo, a titolo del Comitato Liberale, di manifestare il pieno disappunto e la massima contrarietà al testo licenziato dalla Camera.
 
Tra l'altro non ritengo, in simili materie, applicabile il criterio della libertà di voto e quindi di coscienza del deputato. Infatti un deputato, nella sua veste di legislatore, può e deve attenersi ad un unico criterio: nelle materie controverse perchè implicanti scelte di vita individuali, si deve garantire la libertà di coscienza e di scelta del cittadino, con una legislazione laica perchè liberale e rispettova di quella che si chiama l'autonoma ricerca della felicità (rievocando il testo della dichiarazione di indipendenza redatta da Thomas Jefferson).

Il testo approvato, invece, aderisce surrettiziamente ad alcuni principi rispettabili ma legati a scelte individuali, determinate da una specifica relazione tra scienza ed etica. Ma come dovrebbe esser notorio, una tale rispettabilità dei principi viene difesa, in un società aperta e pluralista, garantendo la stessa validità di principi diversi ed anche confliggenti quando questi altro non siano che determinazioni individuali libere, spontanee e non arrecanti danno a terzi (J.S. Mill, On liberty, 1854, sic!).
 
Questa è la stella polare di un intervento coerentemente liberale.

Le dichiarazioni anticipate di trattamento che vengono autorizzate sono farsesche: pretendono l'attualità della manifestazione che è un requisito, nei casi più gravi ed importanti, di per sè inesigibile ed indimostrabile, quindi vanificando l'efficacia giuridica delle stesse dat. Che infatti diventano meri orientamenti, come tali disattendibili dal medico (che sceglierà sulla base delle proprie convninzioni, scientifiche o etiche che esse siano). Un esempio, tra i tanti, di normativa rinnegante, come l'avrebbe chiamata un maestro della storia giuridica, il liberale Italo Mereu.
 
Sul punto riporto di seguito quanto scritto da Michele Ainis sul Corriere della Sera di oggi. Poco mi pare necessario aggiungere.

Auspicavo che API, quale soggetto dichiaratamente liberale, facesse proprio il principio della libertà di coscienza, che deve esser garantita, in simili materie, ai cittadini, poco o punto rilevando quella dei legislatori, a meno che non si ritengano i cittadini destinatari di tutela perchè minus habentes.
 
Andrea Bitetto
 
 
 
 

La fiera dell'ossimoro in quattro paradossi

Dalla Rassegna stampa Nel gran teatro di Montecitorio ieri è andato in scena Eugène Ionesco, il maestro dell'assurdo. Non tanto perché i nostri deputati si lambiccassero il cervello in esercizi filosofici, mentre là fuori tremavano le Borse.
Nemmeno per la singolare concezione dell'urgenza che ispira il Parlamento: il Senato ci ha messo 17 mesi per votare il ddl Calabrò sul testamento biologico, la Camera ne ha fatti passare altri 14 prima di discuterlo, adesso - chissà perché - lo sprint finale. Ma il paradosso non è soltanto esterno, non è un effetto della congiuntura. No, abita all'interno della legge, come una tenia dentro l'intestino. Anzi: a metterli in fila, i paradossi sono almeno quattro.
Primo: le motivazioni. Quelle dettate in aprile dal presidente del Consiglio, con una lettera ai suoi parlamentari. Sarebbe meglio non farla questa legge (Berlusconi dixit), sarebbe preferibile lasciare un vuoto normativo; ma siccome poi i giudici decidono lo stesso, ci toccherà turare il vuoto. E in quale altro modo dovrebbero mai comportarsi, povericristi? Il nostro ordinamento non ammette lacune: se un magistrato lascia cadere nel silenzio un'istanza processuale, risponderà di denegata giustizia.
Secondo: i contenuti. A dir poco schizofrenici, dal momento che promettono un diritto nell'atto stesso in cui lo negano. Ma l'acrobazia verbale sta nelle definizioni. In particolare questa: alimentazione e idratazione forzata non costituiscono terapie (dunque rifiutabili), bensì «forme di sostegno vitale» (dunque irrinunciabili). E perché le terapie mediche sono sostegni mortali?
Terzo: i destinatari. L'emendamento Di Virgilio li restringe ai pazienti in «accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale»: in pratica, i morti. Ma la nuova legge non s'indirizza neanche ai medici, dato che nei loro riguardi il testamento biologico non è del tutto vincolante. E allora che lo scriviamo a fare?
Quarto: i limiti. L'emendamento Barani-Binetti ha stabilito che possono indicarsi soltanto i trattamenti sanitari accettati, non quelli rifiutati. Insomma dimmi ciò che vuoi, taci su ciò che ti fa orrore. Sennonché la nostra identità si configura proprio a partire da quanto respingiamo: come recita un celebre verso di Montale, «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». E poi, con il progresso vorticoso delle tecnologie mediche, come diavolo potremmo immaginare oggi la cura che ci salverà domani? Speriamo almeno che le Camere, insieme alla legge, ci regalino una palla di vetro.
È questa fiera dell'ossimoro, questo circo degli equivoci, che ha infine generato un testamento biologico profondamente illogico. Anche a costo di divorziare dai Paesi liberali (Usa, Svizzera, Inghilterra, Germania e via elencando), dove vige una facoltà anziché un divieto. Anche a costo di sfidare l'impopolarità (il 77% degli italiani è sfavorevole: Eurispes 2011). Anche a costo d'infliggere una ferita alla laicità delle nostre istituzioni, per obbedire ai desideri della Chiesa. Come ha scritto su queste colonne (1 maggio 2011) Umberto Veronesi, come prima di lui osservava Indro Montanelli, la dottrina ecclesiastica dovrebbe impegnare i chierici e i fedeli, non l'universo mondo. Anche perché altrimenti il sondino di Stato bisticcia con la Costituzione, oltre che con la logica. E i punti di frizione sono di nuovo quattro, come i cavalieri dell'Apocalisse.
Primo: l'art. 32 della Carta repubblicana disegna la salute come un diritto, non già come un dovere. Secondo: la medesima norma permette trattamenti sanitari obbligatori, purché per legge e in nome dell'interesse generale. È il caso delle vaccinazioni, per arginare i rischi del ,contagio; ma di quale infezione era portatrice Eluana Englaro, quale minaccia al prossimo reca il moribondo? Terzo: questa legge attenta anche alla privacy, che nel suo nucleo concettuale garantisce la libertà degli individui rispetto all'oppressione dei pubblici poteri. Quarto: ne resta infine vittima l'art. 33, che protegge la libertà degli uomini di scienza, e quindi degli stessi medici. Insomma lo Stato non può imporre agli ingegneri le regole per costruire un ponte, né stabilire come si curino i malati (Corte costituzionale, sentenza n. 382 del 2002).
Ecco, sarebbe preferibile un po' più rispetto, per i medici, per i giudici, per il popolo dolente dei malati. Sarebbe meglio abbandonare questa legge imperativa, affidandosi a un giudizio reso caso per caso. Dopotutto ogni caso è diverso, ciascuno ha la sua legge. E dopotutto vale pur sempre l'aforisma di Thoreau: «Se il governo decide su questioni di coscienza, allora perché mai gli uomini hanno una coscienza?».
 
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Comitato Liberale di Alleanza per l'ItaliaI

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